Autore: Inoue Yasushi
Titolo: Il fucile da caccia
Edizioni: Piccola Biblioteca Adelphi
Pagg.: 101
Traduzione di Giorgio Amitrano
La cornice narrativa che Yasushi crea nasce da una poesia che lo scrittore finge di aver composto per un giornale venatorio, una poesia dal titolo Il fucile da caccia, nella quale l’immagine di un cacciatore solitario, “di una strana bellezza, umida di sangue”, ci trasporta in un mondo dove la superficie si sgretola.
“L’uomo è una stupida creatura, che dopotutto aspira a essere conosciuta da qualcuno”. Sono queste le parole di Misugi, il cacciatore protagonista della poesia, che, riconosciutosi in essa, manda tre lettere allo scrittore e gli chiede solo di essere ricordato.
Yasushi inventa la figura misteriosa e solitaria di Misugi per cercare di rendere più veritiero il racconto, e ci riesce.
La prima lettera, quella di Shoko, si potrebbe definire la lettera della disillusione: la giovane nipote del cacciatore scopre una verità tenuta nascosta da troppo tempo, la storia d’amore tra la madre e lo zio, tenuta nascosta per 13 anni.
Siamo subito catapultati in un mondo di tristezza, di rassegnazione, di impotenza. Shoko si rende conto che la realtà vissuta fino a quel momento è una realtà fittizia, che si regge sulla gigantesca, colpevole bugia della madre Saiko.
La seconda lettera è quella della moglie del cacciatore, Midori, zia di Shoko: è la lettera del cinismo, della praticità, dell’annullamento definitivo di ogni finzione.
La terza, quella di Saiko, è il suo testamento, la confessione di aver vissuto: è la lettera della malinconia venata di morte, dell’inquietudine basata sulla colpa.
“Quando, giunte alla fine della loro vita, serenamente distese, volgeranno il loro viso al muro della morte, tra la donna che ha goduto appieno della felicità di essere amata e la donna che può dire di aver avuto poche gioie ma di avere amato, a quale delle due Dio vorrà concedere il tranquillo riposo?”.
È questo che si chiede Saiko: morire per lei diventa così un modo per chiedere perdono e per attenuare quel senso di colpa che l’ha sempre accompagnata nell’arco della sua vita, e che spera di annullare ingerendo veleno.
Inoue Yasushi (1907-1991) è stato uno dei maggiori scrittori giapponesi del Novecento. Tra i suoi libri più famosi, troviamo La montagna Hira (1950), Vita di un falsario (1951), La corda spezzata (1956) e Ricordi di mia madre (1975).
Con Il fucile da caccia del 1949, il suo primo romanzo, Yasushi trova nella brevità la misura ideale.
L’atmosfera in cui riesce a tratteggiare, tra il detto e il non detto, le tre monadi femminili, individui tra individui, si carica di profonda solitudine, la quale diventa il vero filo conduttore del libro, la parola chiave con cui il lettore deve fare continuamente i conti: è la solitudine del cacciatore, la solitudine dello scrittore, quella della nipote e quella delle due donne, tradite e amate nello stesso tempo.
Paolo Soldano
Corriere Asia